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Se una gelida notte d’inverno uno scrittore

Postato il 3 Aprile 2019 da Elide Messineo
Se una gelida notte d’inverno uno scrittore | aglio
Immaginate Lord Byron, Mary e Percy Shelley, John William Polidori e Claire Clairmont chiusi in una villa a Coligny, in Svizzera, a raccontarsi storie di fantasmi davanti al caminetto. Quest’episodio è avvenuto davvero nel 1816, il cosiddetto “anno senza estate”: leggendo i racconti gotici tedeschi raccolti in “Fantasmagoriana”, i presenti trovarono l’ispirazione per creare delle storie dell’orrore.  Una sfida per divertirsi che diede vita ad alcune opere che hanno avuto un impatto notevole nel mondo letterario.  Prima fra tutte, il “Frankenstein” della Shelley, che fu pubblicato nel 1818. L’anno senza estate coincide con quello dell’eruzione del vulcano Tambora (Indonesia), quando le forti anomalie climatiche distrussero i raccolti di buona parte dei Paesi occidentali, creando una situazione economica drammatica. La Svizzera dovette dichiarare lo stato d’emergenza, l’estate arrivò gelida e piovosa, “umida e non congeniale”. Durante il tempo trascorso a Villa Diodati John Polidori scrisse “Il Vampiro”, creando la figura di Lord Ruthven, peraltro ispirandosi proprio a Lord Byron. Un uomo dallo sguardo freddo che con “una sola occhiata riusciva a soggiogare le ragazze infondendo in quei cuori spensierati un brivido di sgomento”. Il fascino vampiresco iniziava a mettere radici.

L’annata 1890-91 fu particolarmente rigida in Inghilterra, perfino in estate le temperature scesero sotto lo zero – si stava concludendo, allora, la Piccola età glaciale. In una Londra fredda, grigia e cupa (da manuale, insomma), la notte del 7 marzo 1890 Bram Stoker andò a cena, come accadeva spesso, al Beefsteak Club. Proprio in quel club esclusivo fece conoscenza con lo storico ungherese Arminius Vambéry. Grande viaggiatore, tra le altre cose Vambéry insegnava lingue orientali all’Università di Budapest e fu lui a raccontare a Bram Stoker la leggenda di Dracula. Secondo alcuni è proprio al professore che si ispira la figura del cacciatore di vampiri Van Helsing che si trova nel romanzo. Dopo l’interessante chiacchierata con il professore, Stoker se ne andò a dormire con la pancia colma di vino e di granchio ripieno. Si sa, la digestione può influenzare il sonno e in questo caso l’incubo che lo scrittore fece quella notte fu per lui una vera e propria fortuna. Parte di quanto aveva sognato divenne poi l’incubo del protagonista di “Dracula”, il romanzo che ha consacrato Stoker al successo e ha influenzato tutta la letteratura a venire, fino ad arrivare alla cultura di massa. Sono centinaia le opere ispirate al personaggio nato – almeno in parte – dalla fantasia dell’autore irlandese. La storia, ambientata in Transilvania, è stata rimodellata con l’aggiunta di un po’ di folklore (est) europeo e molta ricerca. Tra verità e leggenda, sul finire del secolo stava nascendo un personaggio iconico, che gettò le basi per numerosi cliché del cinema horror che sarebbe arrivato di lì a poco. Oggi, praticamente per tutti, Dracula ha il volto di Bela Lugosi nel film di Tod Browning o, al massimo, quello del Gary Oldman di “Dracula di Bram Stoker” di Francis Ford Coppola.



Mille e una teoria sul vampirismo

Una figura che ha contribuito a creare il personaggio di Stoker è stata senza alcun dubbio quella di Vlad Tepes III Dracula, famoso come “Vlad l’Impalatore”. Figlio di Vlad Drakul, principe di Valacchia, fu celebre per le crudeltà che perpetrò durante il periodo del suo dominio. La leggenda si affermò quando, nel 1931, la sua tomba fu aperta e si scoprì che il suo scheletro era stato sostituito con quello di un cavallo. All’epoca di Vlad l’Impalatore la Valacchia, in Romania, era in continuo contrasto con l’Impero Ottomano. Il padre aveva lasciato Vlad e il fratello Radu in ostaggio ai turchi nel tentativo di riconquistare il trono. Dai turchi, tra le altre cose, Vlad imparò la tecnica dell’impalamento dei nemici, della quale in seguito abusò abbondantemente, al punto da conquistarsi il celebre appellativo. Vlad l’Impalatore morì a seguito di una battaglia con Basarab III. Delle diverse versioni sulla sua morte, la più accreditata lo vede trafitto da molte lance, mentre altre lo vogliono decapitato. Tra verità e leggenda, la figura di Vlad è sempre risultata particolarmente affascinante, dando adito alle storie sui vampiri che circolavano in Romania, ma non solo. Nel folklore europeo non sono mai mancate figure mostruose, protagoniste di storie dell’orrore da raccontarsi attorno a un fuoco. Da sempre l’uomo ha cercato di esorcizzare le sue paure più profonde trasformandole in racconti e creature come i vampiri e i licantropi compaiono anche tornando molto indietro nel tempo, fino all’antica Grecia. Queste figure venivano spesso identificate come nosferat, non morti, o revenant, redivivi, e tra i metodi più conosciuti per annientarle c’è quello del palo di legno conficcato nel cuore. Franco Paolo De Ceglia, professore di Storia della Scienza all’Università di Bari, in un articolo pubblicato su Il Tascabile, fa notare quanto fosse labile il confine tra credenza popolare e religione. Non sono mancati casi di isteria collettiva legati all’avvistamento di morti che uscivano dai sepolcri per perseguitare i vivi. De Ceglia parla di un caso avvenuto a Mykonos ma sottolinea anche il motivo per cui la leggenda di vampiri e simili abbia attecchito soprattutto nei Paesi dell’Europa dell’Est. La religione cattolica aveva previsto una “via d’uscita” per le anime in attesa di purificazione, il Purgatorio, mentre gli ortodossi non avevano questa credenza. I cadaveri ritrovati intatti, a questo punto, assumevano un significato diverso a seconda della credenza più diffusa in un determinato luogo e potevano essere interpretati sia come simbolo del male che di intervento divino. Il confine tra nosferat e santità, tra terrore e spiritualità, quindi, rischiava di essere molto labile. Alcuni studiosi, come Wayne Tikkanen, hanno trovato una giustificazione di tipo scientifico al vampirismo, sebbene non sia del tutto convincente. Professore di chimica alla California State University, Tikkannen ha giustificato il tutto con la Protoporfiria Eritropoietica, una malattia genetica che attacca i globuli rossi. I sintomi della malattia, in effetti, coincidono con molti tratti dei vampiri che sono stati descritti nel corso della storia. La malattia, nella sua forma più acuta, sfigurava il volto e la medicina popolare prevedeva delle cure a base di sangue di animali. Il gesto del succhiare sangue tipico del vampiro da sempre terrorizza l’uomo poiché lo priva della sua linfa vitale. In realtà, al di là della patologia in sé, l’uomo si ciba da sempre di sangue animale, e tutt’oggi molti piatti tradizionali lo contengono, dal sanguinaccio al suo parente britannico, il black pudding. Il sangue più utilizzato è quello del maiale ma in altri casi si consuma anche quello dei bovini o, come per il tiết canh in Vietnam, quello di anatra. A causa della poca resistenza ai raggi UV, le persone affette da porfiria erano fotosensibili e per questo motivo tendevano ad evitare di uscire nelle ore diurne. La porfiria, insieme ad altre malattie diffuse all’epoca, come la rabbia e la tubercolosi, unite ad alcuni casi di morte apparente, diventarono un terreno fertile per le leggende popolari. Il terrore dei vampiri si stava diffondendo da una parte all’altra d’Europa, al punto che l’imperatrice Maria Teresa d’Austria mise al lavoro il suo medico personale per scoprire la verità. Gerard Van Swieten condusse le sue ricerche dal 1718 al 1732 arrivando ad una sola conclusione: i vampiri non esistono. Questo non è bastato – e nemmeno il decreto emanato dall’imperatrice per evitare che le tombe venissero profanate – a fermare credenze e superstizioni, i vampiri sono rimasti delle figure estremamente affascinanti, anche grazie alla versione più romanzata che ne è emersa dalla letteratura.

Il fascino del nosferat nella cultura di massa

Ai giorni nostri sono creature pallide, bellezze prettamente hollywoodiane che tentano di condurre vite moderne pur avendo secoli di storia ed esperienza alle spalle. È qui che arriva il grande dilemma di ogni creatura della notte, come nel romanzo di Anne Rice “Intervista col vampiro” (1976). Conosciuto soprattutto per la trasposizione cinematografica con Brad Pitt e Tom Cruise del 1994, pone al centro il tema dell’immortalità. Lestat, infatti, mette in discussione questo concetto. “Ogni cosa, eccetto il vampiro, è soggetta a costante corruzione e alterazione”, dice, paragonando il dono dell’immortalità alla detenzione “in un manicomio di figure e di forme irrimediabilmente incomprensibili e prive di valore”. Agli occhi di Lestat, dunque, l’immortalità tanto agognata dall’uomo comune non è esattamente un dono. Rimanere mentre tutto il resto scorre pone il personaggio al centro di una situazione che si ripeterà in eterno, senza la possibilità di creare legami duraturi né di poter sfuggire alla propria condizione. Lo stesso tema viene affrontato nel brano cult dei BauhausBela Lugosi’s Dead”, nato dopo che il bassista David J fece una maratona di film sui vampiri. Nel brano, fin dal suo titolo, si fa riferimento anche all’attore ungherese che prestò il volto a Dracula, personaggio dal quale non riuscì mai a discostarsi del tutto per il resto della sua carriera. Nella canzone torna anche il concetto di nosferat, non morto, dove la morte di Lugosi si alterna alla ripetizione del temine “undead” tra le note cupe e monotone del (lunghissimo) brano uscito nel 1979. Nel cinema e nella letteratura moderna i vampiri mantengono il loro fascino ma cambiano abitudini. Alcuni di loro mangiano perfino lo stesso cibo degli umani. A ri-sdoganare questa figura ha contribuito sicuramente la saga di “Twilight” di Stephenie Meyer, come aveva fatto in precedenza la serie cult “Buffy – L’ammazzavampiri”. Una proposta in chiave teen, in cui i vampiri sfoggiano capelli invidiabili, sguardi intensi, giacche di pelle e amori tormentati. Ci sono i vampiri divertenti di “Hotel Transylvania”, che mangiano torte e formaggi urlanti, piranha arrosto e scarafaggi, e poi ci sono i vampiri underground di “Only lovers left alive” di Jim Jarmusch (2013). Uno di loro è Adam (Tom Hiddleston), anche lui alle prese con l’insofferenza verso l’immortalità e una certa propensione al suicidio. Adam e Eve (Tilda Swinton) si nutrono di sacche di sangue che si procurano corrompendo medici e ricercatori per non rischiare di consumare sangue infetto. Nei secoli di vita vissuta, Adam e Eve hanno avuto esperienze intense e hanno cambiato le loro abitudini per stare al passo coi tempi, salvo poi tornare alla cara e vecchia abitudine di mordere le vittime sul collo per succhiare il loro sangue. Un grande classico che, come il nero del mantello di Bela Lugosi, non passerà mai di moda.


Foto di Federica Di Giovanni