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Retrobotteghe, il blog del Mercato Centrale

Scegli una città

Simulare l’esistenza

Postato il 23 Febbraio 2022 da Elide Messineo
Nei primi 2000, superato il terrore del Millennium bug, la tecnologia ha iniziato ad avere un ruolo sempre più predominante nelle nostre vite, evolvendosi a una velocità sempre maggiore. In quel periodo, il regista Spike Jonze si è imbattuto in un articolo che parlava della possibilità di chattare con un’intelligenza artificiale in grado di “evolversi” ed aumentare le proprie capacità di conversazione, confrontandosi con quante più persone possibile. Nel 2010 Jonze affrontò in qualche modo la tematica nel cortometraggio “I’m here”, una storia d’amore tra robot in una Los Angeles in cui la convivenza – peraltro non troppo felice – tra questi e gli umani è cosa del tutto normale. Nel 2013 Spike Jonze ha diretto “Her”, il film con protagonisti Joaquin Phoenix e (la voce di) Scarlett Johansson, facendo un’ulteriore riflessione sul rapporto che si può sviluppare tra un essere umano e un essere virtuale, in questo caso un sistema operativo. “Her” ha ottenuto un successo clamoroso anche perché, per quanto ambientato in un ipotetico futuro, è sembrato preoccupantemente vicino alla realtà. La questione, di fatto, esiste da molto più tempo ed è il risultato di interrogativi che si trascinano da decenni; da quando, insomma, si è capito il potenziale della tecnologia, mettendo da parte le derive immaginarie di qualsiasi film di fantascienza e cercando di comprendere le cose mantenendosi ancorati alla realtà… almeno in parte.

Senza scomodare Touring

 

Oggi pensare ad un legame con qualcosa di virtuale sembra molto meno assurdo, nel corso del tempo ci siamo abituati ad avere un rapporto sempre più stretto con la tecnologia, e nei modi più disparati. Sebbene le sperimentazioni siano sorte molto prima di allora, c’è chi sostiene che a fare da apripista a questo peculiare rapporto sia stato un giochino in particolare: il Tamagotchi, lanciato sul mercato mondiale nel 1997. A un passo dal Millennium bug, appena un anno dopo la clonazione della pecora Dolly, mentre il mondo impazziva per il primo libro della saga di Harry Potter. Il Tamagotchi (nome che nasce dall’unione delle parole giapponesi che significano “uovo” e “orologio”) è stato creato da Akihiro Yokoi e Aki Maita, e prodotto dalla Bandai. Un successo planetario, con decine di milioni di “esemplari” venduti in tutto il mondo. Se eri piccol* negli anni Novanta, altro che FOMO, sai molto bene che senza un Tamagotchi, eri out.

Come racconta Vice, Akihiro Yokoi ebbe l’idea del giocattolo dopo aver visto uno spot pubblicitario che mostrava un bambino intento a preparare una valigia per andare in vacanza, nella quale metteva anche la sua tartarughina per non partire senza il suo animaletto. L’idea di Akihiro era quella di ricreare lo stesso legame che si ha con un animale domestico, ma in formato virtuale, con la possibilità di averlo sempre con sé, anche in vacanza – non a caso ogni “ovetto” di Tamagotchi era comodo da portare con sé non solo per le dimensioni, ma anche per la catenina che permetteva di agganciarlo facilmente. L’idea di un animale da compagnia virtuale si rivelò vincente ed ebbe un successo grandioso, con tutte le polemiche e gli aspetti negativi che la cosa comporta.

Un’intera generazione ha scoperto per la prima volta la sensazione del lutto per un animale virtuale. Imparare a prendersi cura di una creaturina inesistente era un’esperienza così coinvolgente che, per alcuni, il distacco si rivelava traumatico. Le critiche sul fatto che l’animale virtuale morisse sono arrivate in grande quantità, soprattutto perché nella versione nipponica si vedeva una tomba con un fantasmino; nella versione statunitense, volutamente edulcorata, all’animaletto spuntavano le ali e andava via. L’idea di rappresentare la morte sul piccolo schermo di un giocattolo era considerata eccessiva, considerata la sensibilità dei bambini. In qualunque caso, molti di loro hanno deciso di seppellire il loro animaletto, sia in forma fisica che virtuale. In Inghilterra è sorto un piccolo cimitero per Tamagotchi, altri sono nati solo su internet, con lunghi elenchi di nomignoli, cause della morte dell’animale virtuale e messaggio d’addio.

Il successo fu strepitoso ma fu anche un’occasione per porsi qualche domanda di natura etica e filosofica. Non sono mancate le preoccupazioni sulle conseguenze dell’utilizzo del gioco, arrivando a screditarlo attraverso quelle che oggi sarebbero categorizzate come fake news, o comunque attraverso notizie dai toni sensazionalistici. Su La Repubblica nel 1997 si potevano leggere articoli come “Sequestrate quel pulcino, è un giocattolo incubo” in cui si raccontava di Angelo Bonelli, allora capogruppo dei Verdi della Regione Lazio, che ne chiedeva il sequestro cautelativo alla Procura della Repubblica di Roma, avvertendo la pericolosità del giocattolo dopo aver osservato la situazione negli USA. Oppure, ancora, si potevano leggere storie come quella della ragazza svenuta a Chieti a causa “della morte del suo pulcino interattivo ai cristalli liquidi”.

Come sempre, non si può avere un approccio di tipo univoco: se per alcuni il Tamagotchi ha costituito una dipendenza, per altri è stato d’aiuto. Ci sono testimonianze di madri che raccontano come il giocattolo abbia aiutato i loro figli particolarmente solitari o emarginati; altri genitori, invece, non sopportavano le continue (e sonorissime) richieste provenienti dal piccolo ovetto di plastica, gli insegnanti si trovavano aule piene di bambini distratti dai bisogni dei pulcini. Il Tamagotchi, infatti, era particolarmente esigente e bisognava essere molto attenti affinché fosse sufficientemente nutrito e pulito, per mantenerlo in vita il più a lungo possibile.

La preparazione al mondo dei social media e l’interazione virtuale, secondo Digitaltrends, deriva proprio da qui. Si fa un paragone un po’ forzato tra la necessità di tenere in vita l’animale con quella di “tenere in vita” i propri rapporti sui social network compiendo ripetutamente le stesse azioni. Nel primo caso dare nutrimento, pulire e accudire, nel secondo mettere i like, commentare e così via. Di certo ha abituato una generazione ad essere – e sentirsi – perennemente disponibile. E dopotutto, Toy Story docet, non è il sogno di ogni bambino vedere il proprio giocattolo prendere vita? Ecco, i creatori di Tamagotchi ci erano andati molto vicino, ma a un certo punto il successo del giochino – nonostante il successivo tentativo di revival – si è affievolito e il progresso tecnologico ha portato ad altre distrazioni, proponendo alternative virtuali sempre più realistiche, credibili e accattivanti.



Benvenuti a Sim City

 

Il 2000 è l’anno del debutto di The Sims, videogioco di simulazione di vita sviluppato da Maxis e pubblicato da Electronic Arts che ad oggi, al netto delle varie versioni ed espansioni, conta oltre 200 milioni di copie vendute in tutto il mondo. Nel suo genere, è sicuramente il videogame più popolare, che ha rischiato perfino di avere un film (progetto poi fortunatamente cancellato) nel 2007 e che nel 2020 è stato al centro del reality “The Sims Spark’d”, in cui i vari gamers per settimane si sono sfidati, creando scenari con i loro Sims e le loro costruzioni. Tutto questo ha avuto inizio con SimCity nel 1989, un’idea di Will Wright interamente basata sulla possibilità di costruire una città e poi evolutasi, trasformandosi in quella che il suo creatore immaginava come una sorta di casa delle bambole virtuale. Tra le tante creazioni di Wright c’è stato anche un tentativo – meno fortunato – di ricreare una sorta di versione di The Sims con una colonia di formiche. Sì, lo ha fatto davvero.

Un’idea che si è sviluppata partendo dalla stessa base è stata quella che Philip Rosedale ha avuto nel 1999 formando la Linden Lab con l’intenzione di sviluppare un programma che permettesse alle persone un’esperienza immersiva in un mondo virtuale. La stessa idea che successivamente si è trasformata in Second Life, piattaforma multimediale di cui si è molto parlato soprattutto tra il 2005 e il 2006 (e sulla quale, tra le varie cose, per la prima volta è stata aperta un’ambasciata virtuale, quella delle Maldive), precorritrice del Metaverso.

Tornando a The Sims, ad oggi arrivato alla sua quarta versione, il videogioco ha avuto una popolarità più o meno costante nel tempo, che però ha visto un incremento dei giocatori nel periodo del lockdown. È quello che è accaduto anche ad altri giochi – come Animal Crossing – così come in generale al mondo videogame e social: l’impossibilità di avere contatti ha spinto sempre più persone a rafforzare quelli virtuali ma anche a creare storie e mondi nuovi, in cui evadere in attesa di poter tornare alla tanto agognata normalità e, soprattutto, avere il controllo di qualcosa in un momento storico di estrema confusione.

Il periodo del lockdown, con e per tutte le difficoltà che ha comportato, è stato indubbiamente un’occasione per riflettere sulla propria vita, i propri obiettivi e le proprie esigenze. Incredibile ma vero, per qualcuno l’illuminazione è arrivata proprio giocando a The Sims: aspettando di poter tornare alla vita reale e simulandone una virtuale, c’è chi si è reso conto di aver sprecato tempo e di non volerlo più fare; molte persone hanno scelto di cambiare lavoro o di vivere altrove. Nel caso di The Sims, c’è chi ha sperimentato tutte le possibilità offerte dal gioco, scoprendo nuove preferenze o realizzando l’importanza di non rinchiudersi in un mondo virtuale e iniziare a vivere per davvero, affrontando le proprie paure, spostando le “challenge” del gioco al mondo reale.

Il gioco, in ogni caso, è spesso stato al centro di riflessioni e osservazioni che possono dire molto sulla personalità del giocatore, a seconda di come sceglie di giocare. C’è chi sceglie di dedicarsi interamente alle costruzioni – dalle classiche case in stile suburbano a vere e proprie opere di architettura e design -, chi invece ama creare personaggi sbizzarrendosi con look insoliti, o ancora c’è chi preferisce creare intrecci e relazioni e chi decide di non far fare proprio una bella fine ai personaggi, sperimentando tutte le possibilità che il gioco offre. “Questo fa di me un potenziale serial killer?” si chiede qualcuno; qualcun altro risponde di giocare a The Sims perché gioca a fare Dio e perciò ama l’idea di avere il pieno controllo sulla vita di altre persone, seppure virtuali. Qualcun altro sperimenta con le carriere, che negli anni sono diventate sempre più numerose e in alcuni casi anche interattive. Tra le varie possibilità offerte dal gioco, c’è anche quella di gestire un ristorante, che può essere già esistente o ricreato da zero. E la gestione (difficilissima) comporta la scelta del personale, la possibilità di investire nella sua formazione, ma anche la completa personalizzazione delle divise e, last but not least, dei menu.



Il giro del mondo senza spostarsi

 

Nel corso del tempo, la varietà di cibo presente nel gioco è notevolmente aumentata. Se prima il cibo disponibile era di impronta fortemente americana, adesso l’offerta cerca di accontentare un range quanto più ampio possibile. Negli anni, infatti, gli sviluppatori hanno cercato di essere sempre più inclusivi e sotto tutti i punti di vista: l’evoluzione del gioco, insomma, va di pari passo con quella della società. Dopotutto, si tratta di offrire al giocatore la possibilità di creare un mondo a sua immagine e somiglianza – o a immagine e somiglianza di ciò che vorrebbe essere. Per quanto riguarda il cibo, la scelta è meno superficiale di quanto si possa immaginare. Proprio per non dare informazioni scorrette e per una questione di rispetto verso ogni cultura, viene fatta una ricerca che coinvolge esperti di settore, in modo da offrire descrizioni quanto più dettagliate possibile. Si può trovare davvero di tutto, dai cannoli siciliani della caffetteria, a pizza, spaghetti, empanadas, pollo al tofu, edamame, ravioli cinesi, lumpia, ramen, torta matcha, dango, tacos, curry, samosa, arepas, feijoada, gumbo, piatti sperimentali, pasti istantanei da preparare al microonde, pasti proteici per gli amanti del fitness, biscottini per gli animali, marshmallow da arrostire in campeggio; negli spazi pubblici si possono fare grigliate di hot dog o di frutta, o ancora si può preparare il maiale Kalua, ci sono super funghi e frutti delle emozioni che scatenano reazioni e stati umorali diversi, a seconda della tipologia. Ci sono chioschi dove assaggiare cibi più esotici ed ogni destinazione ha le sue specialità: sul Monte Komorebi l’ispirazione è nipponica, a Selvadorada è sudamericana, a Sulani è hawaiiana.

Moltissime persone hanno conosciuto piatti e tradizioni che forse non avrebbero mai scoperto: il gioco, quindi, permette di avvicinarsi ad altri tipi di culture, incuriosisce e diverte. E, secondo il New York Times, al momento quella di The Sims 4 è la cucina migliore che si possa trovare in circolazione. A questo, si aggiunge il fatto che le sfumature caratteriali e fisiche di ogni personaggio sono via via sempre più definite e dal tratto “ghiottone” si può spaziare, fino ad arrivare ai “vegeSim” e quelli intolleranti al lattosio. Si può vivere “senza rete”, quindi cucinare e fare tutte le attività senza elettricità, coltivare i propri ortaggi ed allevare alcuni animali – anche gli insetti -, fare e migliorare le proprie abilità di erboristeria, così come si può progredire nella cucina (anche solo guardando programmi culinari o leggendo libri a tema) e la mixology o seguire una carriera da critico gastronomico. Ad ogni nuovo pack vengono introdotti nuovi elementi, inclusi nuovi cibi. Uno dei più recenti, Cottage Living, per esempio introduce cibi d’ispirazione britannica, oltre alla possibilità che i personaggi cucinino insieme oppure quella di creare confetture e inscatolare cibo, da tenere come scorta, da regalare o da vendere. Altri piatti, invece, si sbloccano a seconda dello stato umorale raggiunto, il giocatore così è sempre incentivato alla sperimentazione e, ovviamente, a far durare le sue partite il più possibile.

Se inizialmente il cibo era solamente uno strumento per soddisfare i bisogni essenziali dei Sims – che vanno sempre tenuti in modo tale da garantire il maggior livello di soddisfazione, proprio come si faceva con il Tamagotchi – ha occupato uno spazio sempre più ampio nel gioco, così come nella vita reale il cibo non è solo nutrimento ma anche cultura, storia e tradizione. Proprio al New York Times, il design director di The Sims, Loel Phelps, ha spiegato che il team si appoggia a dei consulenti e fa ricerca anche avvalendosi di impiegati provenienti da diversi background, in modo da garantire varietà e rendere il gioco quanto più simile alla realtà. Che poi è l’obiettivo con cui è nato, cercando di raccontare e rappresentare la complessità del mondo, confezionata per giocatori pronti a costruire storie e abitazioni incredibili.