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Stare al passo con i Jones

Postato il 18 Gennaio 2022 da Elide Messineo
Nonostante le numerose attività all’attivo, ancora oggi molte persone si chiedono cosa faccia davvero Kim Kardashian (e cosa faccia anche il resto della sua famiglia) per essere così famosa. Di famosi senza un reale talento ne è pieno il mondo, ma solitamente la loro fama è limitata nel tempo, mentre quella del “clan Kardashian” sembra accrescersi sempre di più. Kim Kardashian, figlia del noto avvocato Robert Kardashian – che si occupò, tra le altre cose, anche del famigerato caso di O. J. Simpson – e di Kris Jenner, ha iniziato a farsi strada nel mondo dello spettacolo come assistente personale e poi amica (ruolo ugualmente impegnativo) di Paris Hilton. Successivamente è stata la personal stylist della cantante Brandy Norwood e personal shopper di Lindsay Lohan.

 

Dopo il lancio di una boutique, D-A-S-H-, insieme alle sorelle a Calabasas, Kim Kardashian è finita al centro dell’attenzione per la pubblicazione – non voluta – di un sex tape, nel febbraio 2007, che ha fatto da booster a una carriera già orientata verso il mondo dei reality. Relazioni chiacchierate, matrimoni lampo e poi quello con Kanye West, dal quale sono nati quattro figli, una presenza massiccia sui social, il photobook “Selfish”, qualche comparsata come attrice di film di serie B, il lancio della linea KKW Beauty e Fragrance, l’intimo di Skims, sono solo alcune delle attività che Kim Kardashian ha in ballo da anni. Più recentemente si è fatta notare sempre più in ambito politico e sociale, puntando a una carriera da avvocata dei diritti civili (ancora in divenire), richiedendo tra le altre cose una riforma delle carceri statunitensi e battendosi per il riconoscimento del genocidio armeno.

Keeping up with the Kardashians” (Al passo con i Kardashian) è andato in onda dall’ottobre 2007 al 2021 – tra vari spin-off, nonostante le critiche negative – ed ha contribuito enormemente al successo del cosiddetto “clan” Jenner-Kardashian. Il reality segue le vicende della famiglia nel quotidiano e nel corso del tempo si è trasformato anche in un modo per documentarne i successi, consolidando la fama di “famous for being famous” e rendendo le sorelle Kardashian e Jenner dei modelli da seguire, a cui ambire. Tutti vogliono diventare ricchi e famosi, tutti vogliono una vita luccicante e perfetta come quella mostrata nei reality.

Il titolo del famoso reality con protagonisti i Kardashian-Jenner deriva da una serie di strisce a fumetti molto popolari a inizio Novecento. Abbiamo parlato dei Millennials, di chi sono e quali sono le loro ambizioni; spesso sentiamo parlare anche dei Boomers, ma forse non tutti hanno sentito parlare dei Jones. Si tratta di un segmento di generazione, una coorte, che coinvolge gli ultimi nati nella generazione dei Baby Boomer, tra il 1954 e il 1965, ossia coloro che erano bambini o hanno raggiunto la maggiore età durante il Watergate e la crisi petrolifera. Quella dei Jones è considerata una generazione anonima, con forti ambizioni di scalata sociale ma pur sempre una generazione di mezzo, in parte cresciuta con l’ottimismo del boom economico, poi bloccata dalla delusione delle aspettative.

Dal 1913 al 1938 Arthur Ragland “Pop” Momand realizzò una striscia di fumetti, “Keeping up with the Joneses”, in cui mostrava i componenti della famiglia McGinis alle prese con la loro scalata sociale, in particolare intenti a raggiungere a tutti i costi lo status dei loro vicini di casa, i Jones, presenti ma mai mostrati nelle strisce. Il fumetto divenne così popolare che il termine “Jones” divenne uno slang per definire i vicini e il titolo stesso delle strisce diventò un modo di dire diffuso per raccontare la paura di non essere abbastanza, di essere inadatti, mettendosi sempre a confronto con l’altro; in questo caso, una famiglia di arrampicatori sociali che si confronta con dei vicini di casa altolocati e ambisce a raggiungere il loro stesso status. Un esempio più recente di un personaggio con le stesse ambizioni dei McGinis è quello di Charlotte York di “Sex and the city”, costantemente impegnata ad apparire perfetta e ad essere al passo con le altre donne della buona società. I tempi cambiano, ma alcune abitudini, o meglio, propensioni, sono dure a morire ed oggi si manifestano sotto altre forme.



Bias come se piovesse

La FoMO, fear of missing out, è un fenomeno sempre più diffuso e fonte di stress, soprattutto per i più giovani. Hai mai provato ansia per non aver visto le stories dei tuoi amici dopo qualche ora? La percezione che, senza quelle stories, era come se quelle persone non esistessero davvero? FoMO è il desiderio di essere continuamente connessi, sapere cosa fanno gli altri, provando la sensazione costante di perdersi qualcosa di importante. Quella serie tv che non hai mai visto e di cui tutti parlano, la festa a cui c’erano tutti venerdì sera, c’è un nuovo ristorante in città e sembri l’unica persona che non ci è ancora andata: i social non sono stati di grande aiuto e, anzi, possono essere considerati in buona parte, se non totalmente, la fonte di questa particolare forma di ansia sociale.

Le vite degli altri sembrano essere sempre incredibilmente perfette e divertenti, ricche di attività, tutti sembrano essere sempre sul pezzo, sportivi intellettuali gourmand avventurosi festaioli: FoMO è quando inizi a convincerti che ti stia perdendo qualcosa di importante, che invece tutti gli altri stanno facendo. È una paura abbastanza diffusa in una società che si fa sempre più competitiva e il confronto con gli altri avviene continuamente, esasperato dai social, come spiegato anche dal Psychiatric Research Journal. La FoMO, infatti, è un fenomeno sotto osservazione da tempo, i primi studi risalgono alla ricerca del Dr. German, che coniò il termine nel 1996. L’esistenza di questa forma d’ansia però ad oggi si riscontra maggiormente proprio per via dell’uso assiduo che facciamo dei social e non è un caso che gli adolescenti siano attualmente tra i soggetti più colpiti. Il problema, in ogni caso, può colpire persone di tutti i generi e tutte le fasce d’età; nel caos dei social emerge l’urgenza dell’engagement e quindi l’ansia di ottenere determinate reazioni o interazioni, anziché andare alla ricerca di connessioni vere ed autentiche, alle quali viene tolto tempo prezioso per rimanere aggiornati in tempo reale. Su cosa, però?

FoMO è un bias comportamentale che funziona tramite il cosiddetto “effetto gregge”, vale a dire la tendenza a seguire quello che fa la massa, senza davvero interrogarsi su cosa stia succedendo. È la continua ansia di perdersi esperienze, il bisogno di essere sempre in contatto con gli altri – seppur virtualmente, via social, e si porta con sé l’incapacità di ignorare le notifiche (e magari aumentare il numero di dispositivi che segnalano aggiornamenti, come uno smartwatch o un assistente virtuale), seguita da tendenze umorali negative. Tra gli “effetti collaterali” della FoMO si riscontrano ansia, depressione e disturbi del sonno. Treccani racconta la FoMo come una “sensazione d’ansia provata da chi teme di essere privato di qualcosa di importante se non si manifesta assolutamente la sua presenza tramite i mezzi di comunicazione e di partecipazione sociale elettronici interattivi”.



Non troppo tempo fa, durante la campagna di fine anno molto amata dagli utenti, che condividono le loro playlist con una sorta di “best of” di quello che hanno ascoltato durante l’anno, Spotify invitava a condividere i propri risultati dicendo “Se non lo condividi, non è mai successo”. Alla base di questo fenomeno c’è proprio questo concetto, che molto spesso viene fomentato da precise strategie di marketing, studiate per generare ansia e, per esempio, spingere l’utente a realizzare più acquisti o, come in questo caso, a condividere contenuti. Perché il problema è peggiorato? Le nostre vite sono sempre più esposte – anche nei casi in cui si cerca di evitarlo – ma la tendenza è quella di parlare e raccontare solo gli aspetti positivi – veri o meno – di quello che accade, creando l’illusione che tutto sia incredibilmente perfetto. Sebbene ci sia una presa di coscienza in tal senso, siamo ben lontani da una consapevolezza vera e propria del fatto che l’imperfezione è parte integrante della nostra esistenza e non c’è nulla di male nel raccontarsi anche sotto un’accezione diversa.

Patrick J. McGinnis nel 2004 ha reso questo acronimo popolare con una pubblicazione su The Harbus Magazine della Harvard Business School: nel business marketing, come detto in precedenza, gli effetti della FoMO vengono sfruttati spesso e volentieri. Si tratta di un fenomeno ricorrente come, per esempio, quando ti trovi su un e-commerce che ti avvisa del numero di utenti che stanno guardando la stessa pagina, o la stessa offerta, o del numero di pezzi rimasti dell’oggetto che hai preso in considerazione e che non sai se mettere ancora nel carrello. L’ansia che qualcuno possa ottenerlo prima di te o, ancora peggio, che possa accaparrarsi l’ultimo pezzo rimasto, ti spinge a portare a termine l’acquisto. Qualcosa di simile è accaduto con il lancio di Clubhouse, incentrato proprio sull’idea di una cerchia esclusiva alla quale accedere per invito. Nonostante il successo del nuovo social si sia spento velocemente, all’inizio chiunque bramava per avere un invito e poter entrare a far parte delle varie “stanze”. Il lancio di Clubhouse ha generato FoMO per via dell’esclusività, che ha incuriosito gli utenti, spingendoli a volerne fare parte a tutti i costi. Insomma, la versione digitale del desiderio di appartenere assolutamente ad un gruppo specifico. O di quando qualcuno non ti invitava alla festa di compleanno alle medie e il giorno dopo sentivi tutti i racconti sulla festa, inclusi tutti quegli aneddoti e le battute che solo chi era nella cerchia avrebbe potuto cogliere.

Esistono numerose declinazioni di questa paura di perdersi qualcosa o di non essere abbastanza presenti rispetto alla percezione che abbiamo degli altri e di ciò che riescono a fare. Nomofobia, menzionata e spiegata anche nella decima stagione di “American Horror Story” e al centro di un episodio della prima stagione di “How I met your father“, è la paura di rimanere senza smartphone: no mobile fear, rimanere senza telefono equivale a perdere ogni contatto ed ogni connessione con amici, non poter vedere tutti gli aggiornamenti delle loro vite sui social. Per non pensare, poi, a quante cose facciamo oggi attraverso i nostri dispositivi. Praticamente tutto. L’uso assiduo degli smartphone e l’idea di dover aggiornare costantemente il feed dei propri canali social per sapere tutto quello che succede in tempo reale, ha dato vita a fenomeni come il phubbing. Termine che nasce dall’unione di “phone” e “snubbing”, rappresenta quello che accade quando si controlla continuamente il telefono, ignorando le persone che sono intorno a noi.

L’ansia del feed: Instagram, per esempio, ha annunciato l’intenzione di reintrodurre la possibilità di vedere i contenuti in ordine cronologico e non guidati dall’algoritmo. Questa scelta, infatti, ha causato problemi a diverse persone che non riuscivano più a vedere i contenuti dei contatti più stretti ed erano costantemente bombardate da contenuti che non facevano altro che alterare la percezione della realtà e di sé. Se non hai ancora la possibilità di vedere il feed in ordine cronologico, non andare nel panico e non pensare che qualcuno ti stia tagliando fuori: gradualmente, questa opzione sarà disponibile per tutti gli utenti. JoMO è, invece, la Joy of Missing Out, la controtendenza seguita da chi, in un mondo pieno di stimoli e in cui prendere decisioni sembra sempre più difficile e anche una scelta definitiva lascia sempre l’impressione di essersi persi qualcosa; proprio per via della consapevolezza delle molte alternative possibili, la JoMO va in tutt’altra direzione, invitando a godersi la possibilità di non scegliere e starsene beatamente in disparte.

L’insoddisfazione alla base di tutti questi fenomeni è perpetuata dalla falsa immagine che gli altri danno di sé attraverso i social, pubblicando contenuti edulcorati. Una delle prime cose che bisogna fare, è imparare la differenza tra social e vita reale e lavorare sulla costruzione della propria felicità – che c’è e c’è oltre ogni dispositivo esistente. La condivisione è bella, fin quando non diventa un limite e potenzialmente dannosa. Per esempio, a noi piace condividere i contenuti, i nostri e di chi ci segue, ma se mangi al Mercato puoi tirare un sospiro di sollievo e farlo anche senza fotografare il piatto. Ritagliati il tuo piccolo spazio di tempo e di felicità.