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Xènia, la sacralità dell’ospitalità

Postato il 19 Febbraio 2018 da Elide Messineo
Xènia, la sacralità dell'ospitalità
Fin dall’antichità il cibo ha giocato un ruolo simbolico anche in ambito narrativo e letterario. Uno degli esempi più emblematici è quello dell’Odissea, che racchiude in sé tutta la concezione del cibo come metafora dell’ospitalità nella mitologia antica.

Sono occorsi vent’anni a Ulisse (Odisseo) per fare ritorno a Itaca, il poema omerico è una sorta di precursore della letteratura beat e di viaggio in generale. Nella casa di Ulisse, ormai convinti che non avrebbe fatto più ritorno, risiedevano 108 giovani nobili di Itaca – i Proci – che aspiravano al suo trono, contendendosi la mano di Penelope. La sacralità dell’ospitalità nell’antica Grecia non consentiva alla donna o al figlio, Telemaco, di scacciare i Proci. L’ospitalità greca, la xènia, comprendeva un elenco di regole non scritte che richiedevano enorme rispetto nei confronti dell’ospite (e viceversa) e prevedevano anche un regalo d’addio; l’ospite, a sua volta, era tenuto a ricambiare l’ospitalità. C’era poi chi se ne approfittava, prolungando la sua permanenza per accumulare quanti più beni possibile. Quello della xènia è un concetto che torna varie volte nella narrazione dell’Odissea, gli antichi greci credevano molto nella cortesia verso i viaggiatori poiché pensavano che dietro un viandante potesse celarsi una divinità. Lo stesso Zeus, sovrano degli dei, aveva tra i suoi numerosi epiteti quello di “xenios”, ovvero “protettore degli ospiti”. Un esempio di pessima applicazione del regolamento non scritto della xènia è quello di Antinoo, uno degli aspiranti al trono di Itaca: quando Ulisse si presentò a casa nelle vesti di un mendicante, l’uomo lo maltrattò mettendogli contro Iro, ma gli altri compagni erano intimoriti dal suo comportamento, poiché c’era il rischio che si trattasse di uno degli dei. La teofania, dopotutto, è un altro elemento ricorrente nella mitologia, gli dei spesso si presentavano in forma umana ai comuni mortali.



Non c’è xènia senza cibo

Nel concetto di ospitalità rientra l’importanza del cibo, ogni ospite aveva diritto a dei pasti e alla possibilità di lavarsi. La nutrizione degli antichi greci dipendeva quasi totalmente dal mondo agricolo: i Proci sceglievano i maiali migliori dell’allevamento per i loro banchetti, Polifemo allevava pecore e capre, due tipi di carne onnipresenti nella tradizione enogastronomica greca. Omero nell’Odissea racconta dei meli, i peri, i melograni, ulivi, i fichi e l’uva dell’orto dei Feaci. La maga Circe trasformava gli uomini in maiali, che poi si nutrivano di ghiande, o altre bestie selvatiche. La magia ricorre spesso nel racconto: si parla di erbe usate per compiere malefici, come la moli, l’erba dalla radice nera e i fiori bianchi che Ermes offre a Ulisse come antidoto contro la pozione offertagli da Circe. In questo modo Ulisse non si trasforma in maiale ma viene riconosciuto come eroe dalla maga, che gli offre in cambio il suo amore e restituisce la forma umana ai suoi compagni di viaggio. Dall’unione tra Ulisse e la maga Circe nasce un figlio, ma dopo un anno per il protagonista dell’Odissea è tempo di tornare a casa. Circe li indirizza verso gli inferi, consegnando loro del cibo, indicando l’Ade come la strada migliore del ritorno e per consultare l’indovino Tiresia. Il cibo è la soluzione che Circe offre a Ulisse e ai suoi uomini per uscirne vivi: sacrificare un agnello e una pecora nera agli dei degli inferi. Nel viaggio di Ulisse il cibo ha un ruolo fondamentale anche al momento dell’incontro con Calipso. Lei e le sue ancelle sfamano l’uomo offrendogli ambrosia e nettare. Ulisse sceglie di non rimanere sull’isola, pur essendosi innamorato della ninfa, ma di proseguire la sua avventura di ritorno verso Itaca. Omero narra di una generosa Calipso, che si assicurò che avesse delle scorte per il suo viaggio (“Vi metteva per lui cibi cotti, gustosi, in abbondanza”) e che seguisse la rotta giusta, rinunciando definitivamente al suo amore, con grande altruismo.

Nutrire i viaggiatori rimanda al concetto dell’ospitalità, ma altri fattori dipendevano dal cibo. Come previsto da Tiresia, prima ancora di giungere sull’isola di Calipso i compagni di viaggio di Ulisse mangiarono le giovenche sacre del dio Sole e in cambio questi  scatenò una tempesta in mare, facendo perdere loro la vita. Il cibo è pericoloso anche perché induce in tentazione, lo sa bene Persefone: rapita da Ade, si ritrovò eternamente divisa tra il mondo delle tenebre e quello dei vivi per aver mangiato sei semi di melograno. Non sapeva, infatti, quale rischio stava correndo mangiando i frutti degli inferi. Probabilmente fu portata a mangiare con l’inganno da Ade, che la voleva in sposa. Celebri sono i pomi del giardino delle Esperidi raccolti da Ercole e destinati solo agli dei oppure i filtri amorosi che Medea preparava con le erbe. C’erano poi i lotofagi, un popolo mitico che si nutriva esclusivamente del frutto del loto, che aveva il potere di togliere la memoria. Ovviamente nel corso del tempo si sono discusse le origini dei cibi “magici” di cui si narra nell’opera di Omero. Nessuno sa con certezza cosa fosse l’ambrosia, chiunque la bevesse poteva diventare immortale. Secondo qualcuno potrebbe trattarsi addirittura dell’amanita muscaria, il fungo velenoso che magari poteva aprire quelle che, molto tempo dopo, Huxley definì “porte della percezione”. Per qualcun altro, più banalmente, si tratta del miele, noto per il suo potere purificante e le proprietà di antibatterico naturale. Se vogliamo, si può definire uno dei superfood dell’epoca. Tornando alla xènia, all’ospitalità tanto cara ai greci, l’esempio più rilevante rimane quello dell’incontro di Ulisse con Nausicaa. La figlia di Alcinoo è l’emblema assoluto dell’accoglienza, quasi materna, almeno dal punto di vista di Ulisse. Da quello di Nausicaa, infatti, c’è un principio di innamoramento mai dichiarato al diretto interessato ma espresso da Nausicaa alle sue ancelle. Di questo scrisse anche Nietzsche: “Bisogna prendere congedo dalla vita come Odisseo da Nausicaa-benedicendola, più che restandone innamorati”.


Foto di Federica Di Giovanni