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È sempre colpa degli americani?

Postato il 24 Marzo 2021 da Elide Messineo
La Golden Age di Hollywood, l’età d’oro del cinema, viene collocata tra il 1917 e il 1963. Partiva dal cinema muto fino all’avvento del sonoro, una delle più grandi rivoluzioni insieme al colore. Attraverso il cinema, milioni di persone potevano sognare, immedesimarsi nelle storie degli altri, sognare attraverso coppie come Clark Gable e Vivien Leigh, oppure Ingrid Bergman e Cary Grant, ridere e riflettere con i film di Charlie Chaplin. La Golden Age hollywoodiana ha segnato la storia del cinema in generale, anche oltre i confini americani, e questo è stato possibile grazie a un fattore in particolare, il doppiaggio.

Con gli strumenti che abbiamo oggi a disposizione e una conoscenza più diffusa dell’inglese, in molti sono diventati “puristi” del cinema e preferiranno vedere i film e le serie tv senza doppiaggio, al massimo con i sottotitoli. Il doppiaggio, tuttavia, è stato fondamentale per la diffusione delle opere americane all’estero, anche dal punto di vista culturale. Il tasso di analfabetismo negli anni Venti e Trenta era molto alto e i sottotitoli avrebbero escluso la maggior parte degli spettatori, che non avrebbero potuto leggerli: pensate all’impatto che il doppiaggio ha avuto sulle vite di queste persone, che non sapevano leggere e di certo non conoscevano una lingua straniera. Nel 1930, però, Mussolini aveva deciso di bloccare questa pratica per favorire la produzione nazionale e valorizzare la lingua italiana. Come tutti sanno, anche le parole più semplici che potessero evocare lingue estere, furono trasformate. Per molto tempo, quindi, il pubblico italiano non ha potuto godere delle opere cinematografiche americane, pericolosissime anche dal punto di vista ideologico. Allo stesso tempo, gli americani venivano privati di una buona fetta di pubblico. L’assenza di doppiaggio, inoltre, rappresentava un costo enorme per le case di produzione che, come la MGM, tentavano di produrre i film girandoli in più lingue – pensate che lavoraccio.

Cos’è cambiato nel Dopoguerra

Negli anni Trenta la pratica di doppiare iniziò a prendere piede, sia negli USA che in Italia, dove fu fortemente limitata. Ci è voluta la fine della guerra per ribaltare la situazione: gli americani avevano il coltello dalla parte del manico ed erano pronti ad esportare la loro cultura in tutti i modi possibili. Non è un caso, quindi, che negli accordi del piano Marshall sia stato tenuto ampiamente in considerazione il cinema e in particolare il doppiaggio. Si trattava, dopotutto, di uno degli strumenti più potenti per diffondere la propria cultura e la propria immagine all’estero. Da questo momento in poi, il doppiaggio italiano diventa una vera e propria arte e il cinema americano si insedia definitivamente nelle sale nostrane, diventando parte integrante della cultura del Paese. Dalla fine della guerra ai giorni nostri, sono innumerevoli le opere che gli italiani amano e hanno amato e dalle quali hanno tratto ispirazione o, spesso senza nemmeno rendersene conto, si sono fatti influenzare. Gli americani sono abilissimi nel product placement e di questo abbiamo già parlato: quante volte, guardando un film, vi è venuta voglia di mangiare un determinato piatto o acquistare un prodotto specifico, dopo averlo visto in tv o al cinema?

L’impatto del doppiaggio è stato più potente di quanto si possa immaginare: gli Stati Uniti hanno avuto modo di esportare il loro stile di vita all’estero, incluse le abitudini alimentari. Secondo alcuni studi, film e serie tv hanno una forte influenza sulle abitudini alimentari del pubblico statunitense, ma non solo. Gli americani non sono noti per la loro cucina salutare ed uno dei motivi per cui questo stereotipo è ben radicato, dipende anche dal cinema, dalla tv e della pubblicità. Nella maggior parte dei casi, nella scena di un film non troverete qualcuno mangiare una semplice insalatina e una fettina di carne magra, ma un maxi hamburger con Cheddar, cetriolini e altri dieci ingredienti, accompagnato da patatine fritte e l’immancabile bicchierone di Coca-Cola (Tarantino, ci senti?). Gli spettatori più influenzabili sono i più giovani – motivo per cui molto spesso i brand di snack e altri tipi di junk food si rivolgono a questo target – ma sono anche quelli maggiormente a rischio. Questo non fa altro che creare un vero e proprio circolo vizioso per cui all’estero gli americani sono visti come mangiatori assidui di junk food e negli USA viene supportata l’idea che sia quello il modo più corretto di mangiare. Da questa parte dell’oceano, noi italiani guardiamo con disprezzo i servizi sugli elevatissimi tassi di obesità infantile negli Stati Uniti, dei rischi per la salute e, reprimendo la nostra voglia di McDonald’s, ci diciamo che per fortuna noi siamo cresciuti con la dieta Mediterranea. Ci sentiamo lontanissimi dai rischi che affliggono gli USA, ma è davvero così?



Come siamo messi in Italia

La strada è lunga ma la luce in fondo al tunnel è già visibile: la consapevolezza dei consumatori è in aumento e sempre più persone stanno attente a quel che c’è scritto sull’etichetta. Uno dei problemi del cibo made in USA, sono gli alimenti iper-processati ma molte aziende stanno iniziando a cambiare rotta, anche sulla scia delle richieste dei consumatori, che si sono fatti sempre più esigenti. In Italia, in linea generale, i cibi sono sicuramente meno processati e le alternative un po’ più salutari rispetto a quelle americane, ma non c’è da sentirsi con la coscienza a posto. Quando ci indigniamo per le fettuccine Alfredo, la carbonara con la panna e la pizza con l’ananas, siamo davvero sicuri di mangiare meglio di loro? La risposta, molto spesso, è no. C’è una presunzione culturale di fondo, quando si parla di cibo e italiani, come se si desse per scontato che si erediti la capacità di saper cucinare e mangiare bene solo per una questione di nazionalità. Se così fosse, i dati non dovrebbero essere allarmanti come invece sono nella realtà. Molti dei cibi che consumiamo, anche in Italia, sono trasformati e sono fatti in modo tale da indurre il consumatore a volerne sempre di più. Vale per la maggior parte degli snack e delle merendine, ma non solo. Spesso si tratta di preconfezionati che, oltre ad essere comodi e veloci da mangiare, hanno prezzi inferiori. La questione economica ha giocato un ruolo molto importante nella diffusione del junk food. Non si tratta solo di riferimenti culturali e cattivi esempi che influenzano le masse, ma anche di disponibilità economiche e di un mercato che mette in vetrina più facilmente questo tipo di prodotti, rispetto a quelli più sani che, diciamocelo, sono meno accattivanti. Tra una mela verde e un sacchetto di patatine fritte, difficilmente la prima avrà la meglio.

A inizio 2020, Coldiretti ha lanciato un appello, commentando un rapporto di UNICEF, Organizzazione Mondiale della Sanità e Lancet, basato sui dati Istati: la popolazione italiana di bambini e adolescenti tra i 3 e i 17 anni è fortemente a rischio. Circa 2 milioni e 130 mila bambini o adolescenti in Italia, infatti, sono in condizione di obesità o eccesso di peso. Si tratta del 25,2% dei bambini inclusi in quella fascia d’età. I problemi a monte sono molteplici e non si tratta solo di una questione di riferimenti culturali sbagliati. Così come questo discorso non vale solo per i bambini americani. Ci sono di mezzo le proposte delle mense scolastiche ma anche una crisi economica, accentuata più che mai dalla pandemia, che ha costretto molte famiglie a ridurre le loro spese. Meno budget a disposizione, significa dover rinunciare a cibi di qualità maggiore, a una maggiore varietà e molto spesso a cibi freschi, a partire da frutta e verdura. I dati indicano, quindi, che il consumo di cibo spazzatura non è una trasgressione che ci si concede di tanto in tanto (il comfort food occasionale è concesso) ma una vera e propria abitudine che mina la salute dei più giovani, aumentando i rischi di malattie cardiovascolari e non solo. Il problema, quindi, non è solamente la bassa qualità del cibo ma la frequenza e la quantità in cui questo si assume, senza magari considerare alternative altrettanto gustose ma più salutari. Questo per diversi motivi, tra cui sicuramente quelli economici. Un’alimentazione sana si basa anche su cultura e conoscenza, per questo è sempre bene essere informati sui benefici e i rischi degli alimenti, così come dell’importanza di seguire una dieta corretta ed equilibrata. Dovremmo ricordarci sì di essere uno dei Paesi che possono permettersi il lusso di un’autentica mediterranea, ma dovremmo anche saperla seguire a dovere e tramandarla di generazione in generazione, nella maniera più corretta e sana possibile.



Il problema non è così lontano da noi

Se pensate che il cinema e le pubblicità abbiano un ruolo marginale in tutto questo, allora vi è sfuggito il report diffuso dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che tocca proprio questo tema. Molti Paesi europei, Italia inclusa, non prendono abbastanza provvedimenti per tutelare bambini e ragazzi da pubblicità che incentivano il consumo di alimenti potenzialmente dannosi. Come dicevamo, questa specifica fascia d’età è facilmente influenzabile ed è il target principale delle aziende produttrici. Difficilmente persone così giovani sono in possesso degli strumenti per poter decidere della loro alimentazione, ma spesso non li hanno nemmeno gli adulti. Cedere alle tentazioni rimane la via più semplice da seguire ma quando questo non avviene con moderazione, i rischi per la salute sono dietro l’angolo. Lo stesso Ministero della Salute lancia l’allarme attraverso i dati più recenti (2019) e il sistema di sorveglianza nazionale Okkio alla Salute*: L’Italia è tra i paesi europei con i valori più elevati di eccesso ponderale nella popolazione in età scolare con una percentuale di bambini in sovrappeso del 20,4% e di bambini obesi del 9,4%, compresi i gravemente obesi che rappresentano il 2,4%. Molti bambini, oltre a non seguire un’alimentazione bilanciata, trascorrono molto tempo davanti alla TV – senza contare l’ultimo anno trascorso tra lockdown e DAD – e svolgono poca attività fisica. A questo si aggiungono le ore di sonno (meno di 9 ore a notte), che non sono sufficienti e che invece influiscono notevolmente sulla salute e questo non riguarda solo i più piccoli. Ecco perché, sempre più spesso, sulle merendine si trovano dei suggerimenti sulle quantità da consumare e su come integrare per un’alimentazione più sana e completa. Quasi sempre compare anche il consiglio di svolgere un po’ di sport ogni giorno.

Cosa dicono i dati nello specifico? Che “quasi 1 bambino su 2 non fa una colazione adeguata al mattino (l’8,7% non consuma la prima colazione o la consuma in maniera inadeguata (35,6%) e 1 su 4 consuma frutta e verdura meno di una volta al giorno. I legumi vengono consumati meno di una volta alla settimana dal 38% dei bambini mentre il 48,3% e il 9,4% consuma rispettivamente snack dolci e salati più di 3 giorni a settimana. Diminuisce, invece, l’assunzione giornaliera di bevande zuccherate e/o gassate anche se circa 1 bambino su 4 continua a berle”.
Se è vero che le politiche in futuro dovranno attivarsi per cambiare la situazione, nel nostro piccolo ciascuno di noi può fare la sua parte. Prima di tutto, informandosi e poi mettendo in pratica ciò che si è imparato, trasmettendo le informazioni corrette ai più piccoli, educandoli da subito a uno stile di vita sano.


*Okkio alla Salute è il sistema di sorveglianza nazionale coordinato dal Centro Nazionale per la Prevenzione delle malattie e Promozione della Salute (CNaPPs) dell’ISS ed è il centro di riferimento dell’OMS sull’Obesità infantile.